Mamma torna a lavoro

Sono uscita di casa sola per tornare solo 9 ore più tardi. Cristian è a casa con Martina, che conosciamo, ma che non ha mai passato così tante ore sola con lui. Il vento del sollievo mi ha colpita stamattina: mi sono vestita scomoda per un bimbo, mi sono truccata, che l’eyeliner l’ho messo così male che Cri ha pianto quando mi ha vista; ho preparato la borsa senza inserire pannolini – salviette – vestiti di ricambio, che abbiamo una passione per la pipì all’aria, giochini vari. Sono uscita senza passeggino, che puntualmente si incastra nel portone, ho lasciato dietro di me gli “oh Dio la copertina” e i vari “speriamo che non scleri”.

Sono uscita sola e così mi sono sentita, il vento è diventato un soffio sempre più debole e alla fine si è arreso. E poi anche io. Credevo davvero non mi sarebbe mancato neanche un po’? Sì, lo credevo. Ma non è poi così male.

In fondo mi piace sentire la mancanza di Cristian, mi piace aspettare le foto che mi manda Martina, di lui con la bocca impiastricciata o circondato dai suoi giochi e le guanciotte grassocce e sorridenti. Mi piace farlo vedere a Manuel tutto rannicchiato nel suo lettino ed emozionarci insieme. Mi piace tornare a casa tutta stretta attorno a Manuel sulla vespina, lanciarla nel cortile, toglierci il casco in ascensore e avere il batticuore mentre infiliamo la chiave nella toppa. Mi piace vedere la sua espressione che cambia non appena varchiamo la soglia, mi piace quel sorriso che ci regala, che sa che entro qualche millesimo di secondo uno dei due lo prenderà e lo lancerà in aria mentre l’altro farà finta di prenderlo e lui riderà fino a diventare isterico. Mi piace addormentarmi la sera soddisfatta di essermi ripresa la mia identità di Donna, che l’essere mamma mi fa impazzire ma, insomma, c’è bisogno di equilibrio nella vita.

Ho avuto un inizio soft e comunque non lavorerò tutti i giorni. Ho rifiutato dei lavori perché mio figlio me lo voglio godere, non arrivare a una certa età e rimpiangere quegli anni in cui sarei dovuta stare più con lui e invece tornavo troppo tardi a casa ed eravamo entrambi troppo stanchi per trascorrere del tempo di qualità insieme. Voglio riconquistare un po’ della mia indipendenza e regalargli pian piano l’autonomia su cui costruirà la sua identità, ma voglio che senta che la mamma ci sarà sempre, che anche dopo tante ore, anche dopo tanti anni, quella porta di casa si aprirà e compariranno due babbi che non vedono l’ora di abbracciarlo.

In questi mesi, poi, ho sviluppato tanti pensieri che non avrei mai avuto idea di poter concepire, alcuni molto primitivi e ancestrali come preservare la vita, mia e di Manuel, non per noi stessi ma per Cristian, perché abbiamo un dovere, quello di genitori, che contiene non solo prendersi cura di lui e della sua vita, ma anche della nostra, con tutto ciò che questo comporta come stare attenti in strada che sia in macchina, in Vespa o a piedi; non lasciare nulla al caso per quanto riguarda salute, istruzione, alimentazione; scegliere adeguatamente il luogo in cui vivere… Ho visto, proprio in questi giorni, un reportage di Alessandro Penso, un fotografo italiano che segue da anni i migranti. Non amo questo genere di cronaca, non perché non mi curi della disperazione di queste persone, ma perché la mia empatia raggiunge livelli così alti che il respiro mi si spezza e mi assale un malessere che è poi difficile da estirpare e mi impedisce di arrivare tranquillamente a fine giornata. Nonostante ciò, a volte, credo faccia bene un bagno di realtà, anche per rimettere le cose in prospettiva. Ho passato, quindi, una buona ora immersa in un mondo che mi sembrava così lontano ma che ho capito solo adesso fino in fondo quanto sia universale, perché è mosso dalle stesse spinte ataviche che toccano tutti: preservare la vita, donare ai piccoli possibilità che vadano oltre le lacrime, non privarli del gioco, regalargli la scelta. Poi l’approdo in questa penisola che dovrebbe fornire salvezza svela scenari che non sono proprio fedeli all’immaginato, purtroppo. Da mamma, ad un certo punto, mi sono egoisticamente ritirata, ho richiuso gli occhi attraverso quella x rossa, perché fa male. Sono immagini che fanno male al cuore. Spero, forse un po’ passivamente, che arriverà il giorno in cui il Paese sarà maturo, un po’ meno ignorante, educato e rispettoso abbastanza da arrivare almeno ad un’accoglienza degna di un essere umano, che ho imparato essere la base per qualsiasi rapporto futuro. L’accoglienza.

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Un’immagine tratta dal reportage di Alessandro Penso

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